3722129
doi
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Discussione - Per una scienza del filosofico. Sulla Storia dell'idea di tempo di Henri Bergson
Daniele Poccia
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<p>La necessità con la quale il pensiero filosofico ha tentato di derivare il tempo dell’eterno è la stessa grazie a cui il tempo si è imposto come tema principale e forse definitivo del filosofare. Come vi fosse una segreta relazione di simmetrica esclusione ma anche di reciproca implicazione, nella storia della filosofia occidentale, tra il pensiero del tempo e quello della necessità, sino al punto in cui la negazione del tempo stesso si identifica, rovesciandovisi, nel suo <em>inevitabile</em> riconoscimento. Nella <em>Storia dell’idea di tempo. Corso al Collège de France 1902-1903</em>, Bergson non lo dice apertamente, ma lo lascia in qualche modo intuire al suo lettore (all’ascoltatore dell’epoca). Il tempo della filosofia è il tempo di una necessità – la necessità di pensare il tempo come durata. Ora, c’è un modo semplice e diretto per spiegare che cosa Bergson intendesse con il termine concettuale «durata» ed è la parola “ritmo”. Un ritmo è qualcosa di più di una semplice scansione numerica del divenire. Il ritmo designa sempre il modo in cui il tempo passa, qualcosa come <em>il tempo stesso impiegato dal tempo a passare</em>. Quale è allora il ritmo proprio del tempo (im)pensato dal filosofo? Come spesso – se non sempre – accade, l’allievo vede nel pensiero del maestro quel che il maestro non riusciva a vedervi. E vedendolo rivela il suo segreto a tutti. Se è vero dunque, come sosteneva lo stesso Bergson, che ogni filosofo parla sempre di una sola cosa – una sola cosa che non riesce mai del tutto a esprimere –, è altrettanto vero che spetta all’allievo enunciare quel che il suo predecessore stentava a formulare. Ovviamente, lo farà sul fondamento di un nuovo inesprimibile, anch’esso destinato, nella sua opera, a rimanere sottaciuto. Quasi che, per così dire, ogni verità non sia mai del tutto da sola. Quasi che la ‘verità del vero’ sia, da ultimo, di essere un <em>plurale tantum</em>. Alfred. N. Whitehead – per molti versi un continuatore del pensiero di Bergson – definisce allora così il ritmo: «la fusione della permanenza (<em>sameness</em>) e della novità». Dunque, la durata è tale fusione: coniuga il permanere e l’innovare, la ripetizione e il cambiamento: l’essere e il divenire. Si potrebbe dire, bergsonianamente, che il tempo vero, il durare autentico, non stia solamente dalla parte della memoria, ma sia piuttosto il sinolo di materia e memoria, il passaggio continuo dell’una nell’altra, finché tutta la materia si fa memoria e tutta la memoria diventa materia, come accade esemplarmente nel sogno. Che sia questa la determinazione ultima di quella pratica che prende il nome di filo-sofia, di amore per il sapere, e che trova addirittura nel pensiero <em>della</em> durata stesso (genitivo oggettivo e soggettivo) la sua unica determinazione? Il sogno come cifra della filosofia? Ma che cosa sogna, nello specifico, un filosofo? </p>
Zenodo
2020-03-20
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Lo Sguardo
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2020-03-20